Che cosa spinge le persone a votare per un partito
Quali sono i fattori che spingono le persone a optare per un partito o per l’altro? Quali sono gli elementi artefici delle scelte di voto? Com’è cambiata, nel tempo, la mappa dei driver di voto?
Lo spazio a disposizione non consente una disanima articolata del tema, ma permette alcune valutazioni schematiche e alcuni flashback.
Un primo elemento da cui partire è la riduzione, quasi la sparizione, del voto come scelta generata dalla tradizione familiare. Il mutamento profondo della geografia politica avvenuto negli ultimi venti anni, con la scomparsa dei partiti tradizionali, la nascita di nuove formazioni e lo sfrangiarsi in diversi alveoli e rivoli delle culture politiche storiche, ha reso i legami tra percorsi familiari e politica sempre più flebili e meno marcati, introducendo, in tutte le aree politiche, tratti di discontinuità.
Un secondo tema da osservare con attenzione è quello legato alla riduzione della scelta identitaria. Il voto di parte, in qualche modo ideologico, generato dall’appartenenza, dalla condivisione di valori e identità, dall’alta fiducia in una forza politica, è diventato minoritario. In quest’area ritroviamo solo una quota (neanche troppo consistente) di elettori del PD e di Forza Italia, con una piccola pattuglia di soggetti che votano Lega Nord o Fratelli d’Italia.
L’adesione politica, infatti, è sempre più sciamica, è sempre meno basata sulla condivisione di tratti identitari.
Gli ultimi venti anni hanno generato una rivoluzione nelle forme di riconoscimento politico e i vettori d’attrazione sono traslati dall’appartenenza all’adesione, al bisogno di riconoscersi anche transitorio, nella dimensione simbolica e onirica della proposta politica di un partito. Il disincanto del voto di appartenenza ha prodotto una fascia peculiare di elettori “a mezz’aria”, che si trovano tra il “non più” e il “non ancora”.
Si tratta di un drappello (un sesto del corpo elettorale) che, pur non aderendo più in modo convinto e identitario a un partito, non ha ancora deciso di lasciarne i lidi e, pertanto, vota turandosi il naso (come ebbe a dire Indro Montanelli), scegliendo il partito ritenuto “meno peggio”.
In questo processo trasformativo, il voto per motivi programmatici ha perso peso (complice anche la tendenziale omologazione tematica su alcuni argomenti), mentre è cresciuto il valore del leader come soggetto in cui le persone si possono riconoscere e immedesimare. La crescita del voto sciamico, d’adesione (di affinità elettiva), si è strutturata lungo tre differenti grandi canali: la proposta etica, con un leader e un modello di azione volto a rispondere ai bisogni di onestà, difesa dei beni comuni, lotta alla corruzione e alla casta; la proposta popolare, vicina alla gente, che parla in modo diretto ed esplicito senza ambiguità e politichese, con proposte che rispondono, in modo semplice e chiaro, alle ansie del momento; la proposta del cambiamento, che vuole mandare tutti a casa, che intende generare una svolta, una rigenerazione radicale. In questo processo metamorfico possiamo riconoscere anche lo zampino dell’estetizzazione della politica, per dirla con le parole del filosofo francese Daniel Bensaïd. Un processo che oltre ad ampliare gli spazi del leaderismo, ha accentuato le forme dell’infatuazione per la prossimità, il rifiuto dei grandi racconti e i diversi simulacri dell’autenticità (selezionato dalla rete, moralizzatore, ripulitore ecc). Dietro tutto ciò non c’è solo mera estetizzazione, ma c’è un ben più profondo processo di rimodellazione del campo politico. A guidare la scelta di voto, da un lato, è sempre più il bisogno di futuro, inteso sia come proposta adeguata alle speranze, sia come risposta alle paure; mentre dall’altro lato, è la narrazione, il mix strategico-onirico, l’empatia del leader e la sua capacità di incarnare un mood in cui le persone, con angolature, sensibilità e provenienze differenti, si possono riconoscere.