POLITICAPP | 28 ottobre 2016
Il ritorno del valore dell'Università
Università: la sfida di tornare a essere un ascensore sociale
Eppur si muove. Il Paese dà segnali di riavvicinamento al valore dell’istruzione universitaria. Le prime evidenze si sono avute a inizio anno, con la pubblicazione dei dati del Miur sugli iscritti per l’anno accademico 2015/16. Il dato portava alla luce una leggera crescita (271.119 iscritti, con un più di seimila unità rispetto all’anno precedente). Un lampo in controtendenza con il costante calo delle iscrizioni registrato nell’ultimo decennio: nel 2004/05 gli studenti universitari erano 335.541 (fonte Ocse). L’analisi realizzata da SWG a ottobre 2016, disegna un quadro ulteriormente in evoluzione (anche se quanto rilevato non condurrà automaticamente a un ulteriore incremento di iscrizioni nel breve periodo). Nelle viscere del Paese sembra profilarsi, con affanno, un cambio di atteggiamento verso l’Università. Dopo anni di denigrazione del valore della laurea (e del sapere in genere) e di nobilitazione del far soldi (presto, facilmente e senza peculiari competenze), il vento sembra iniziare a spirare verso un’altra direzione. Per il 71% delle famiglie è importante investire nella formazione universitaria. Una scelta di cui sono maggiormente convinte le persone che vivono nelle regioni del Centro Italia (77%), rispetto a quelle residenti al Sud (59%). Una convinzione che riguarda, soprattutto, i baby boomers, la generazione dei genitori, mentre le generazioni più giovani si presentano più distanti e disilluse verso l’investimento sulla formazione universitaria (75% di importanza tra i baby boomers, contro il 58% tra i millennials). Vent’anni di proselitismo anti-sapere, di scarsa valorizzazione dei talenti, di Università che producono cordate, familismi e nepotismi; d’imprese che puntano su soggetti accomodanti e obbedienti, disinvestendo su creatività, capacità e merito, non possono che generare disincanto rispetto al sapere universitario da parte dei giovani. Non a caso, di fronte al bivio tra imparare un mestiere e puntare sulla laurea, l’opinione pubblica si concentra prevalentemente sulla prima scelta, lasciando l’opzione universitaria al 37%. Anche in questo caso a preferire un percorso di vita pratico sono i giovani, mentre la generazione dei genitori, soprattutto i cinquantenni, sostiene con veemenza la scelta di studio. Oltre al problema della disaffezione giovanile, occorre puntare i riflettori su un altro tema caldo. L’Università sta tornando ad essere una scelta di “classe” e non svolge più il ruolo di ascensore sociale.
Verso la società 4.0 la laurea torna a essere un driver
L’importanza di investire nello studio è, infatti, sostenuta con determinazione dalla middle class, che vive la scelta come conferma del proprio status e come linea di continuità generazionale. Le famiglie più povere e quelle dei ceti in difficoltà economica mantengono un’adesione flebile all’investire nell’istruzione universitaria (con una distanza di peso di circa 20 punti percentuali rispetto alla classe media). A frenare sono certamente i costi dello studio e la difficoltà a mantenere i figli, ma, soprattutto, un sistema di sostegno inadeguato per meritevoli e talenti, nonché l’incapacità dell’Università di farsi percepire come strumento dello sviluppo professionale e occupazionale delle persone. Il problema è ben rappresentato nell’opzione pro-mestiere. Essa è abbracciata da quasi il 60% dei ceti bassi, mentre l’ipotesi della laurea è una prospettiva individuata da poco più del 20%.
Il vento del cambiamento, tuttavia, inizia a farsi vedere. Sospinta dalle trasformazioni del sistema produttivo, dalle potenzialità offerte dalla rete, dall’avanzare delle innovazioni tecnologiche e dall’incedere dell’industria 4.0, l’opinione pubblica sta rivalutando il ruolo dell’Università. Essa è ritenuta strategica per lo sviluppo del Paese dal 63% degli italiani (solo nelle isole il dato è marcatamente più basso, assestandosi al 49%). I temi che il sistema universitario nostrano deve affrontare per giocarsi la partita sono numerosi. L’agenda setting proposta dall’opinione pubblica tocca aspetti che spaziano dall’apertura verso il mondo del lavoro, al sostegno della meritocrazia; dal rinnovo del personale docente all’innovazione del sistema universitario. Le sfide segnalate dagli italiani mettono sul piatto l’esigenza di rendere le lauree triennali professionalizzanti con attività di laboratorio in Università e nelle aziende; di rafforzare le attività nell'alta formazione, collegando i dottorati di ricerca alle esigenze delle imprese; di concentrarsi sui centri di eccellenza nel settore della ricerca applicata; di stimolare la nascita di nuove imprese da parte dei giovani laureati; di rafforzare il profilo internazionale degli atenei e la qualità dei docenti. La sfida sul campo è ampia. L’Università deve recuperare su molti fronti, ma su tutti primeggiano due temi: tornare a essere un orizzonte di futuro per i giovani e un ascensore sociale per i meno abbienti.
Eppur si muove. Il Paese dà segnali di riavvicinamento al valore dell’istruzione universitaria. Le prime evidenze si sono avute a inizio anno, con la pubblicazione dei dati del Miur sugli iscritti per l’anno accademico 2015/16. Il dato portava alla luce una leggera crescita (271.119 iscritti, con un più di seimila unità rispetto all’anno precedente). Un lampo in controtendenza con il costante calo delle iscrizioni registrato nell’ultimo decennio: nel 2004/05 gli studenti universitari erano 335.541 (fonte Ocse). L’analisi realizzata da SWG a ottobre 2016, disegna un quadro ulteriormente in evoluzione (anche se quanto rilevato non condurrà automaticamente a un ulteriore incremento di iscrizioni nel breve periodo). Nelle viscere del Paese sembra profilarsi, con affanno, un cambio di atteggiamento verso l’Università. Dopo anni di denigrazione del valore della laurea (e del sapere in genere) e di nobilitazione del far soldi (presto, facilmente e senza peculiari competenze), il vento sembra iniziare a spirare verso un’altra direzione. Per il 71% delle famiglie è importante investire nella formazione universitaria. Una scelta di cui sono maggiormente convinte le persone che vivono nelle regioni del Centro Italia (77%), rispetto a quelle residenti al Sud (59%). Una convinzione che riguarda, soprattutto, i baby boomers, la generazione dei genitori, mentre le generazioni più giovani si presentano più distanti e disilluse verso l’investimento sulla formazione universitaria (75% di importanza tra i baby boomers, contro il 58% tra i millennials). Vent’anni di proselitismo anti-sapere, di scarsa valorizzazione dei talenti, di Università che producono cordate, familismi e nepotismi; d’imprese che puntano su soggetti accomodanti e obbedienti, disinvestendo su creatività, capacità e merito, non possono che generare disincanto rispetto al sapere universitario da parte dei giovani. Non a caso, di fronte al bivio tra imparare un mestiere e puntare sulla laurea, l’opinione pubblica si concentra prevalentemente sulla prima scelta, lasciando l’opzione universitaria al 37%. Anche in questo caso a preferire un percorso di vita pratico sono i giovani, mentre la generazione dei genitori, soprattutto i cinquantenni, sostiene con veemenza la scelta di studio. Oltre al problema della disaffezione giovanile, occorre puntare i riflettori su un altro tema caldo. L’Università sta tornando ad essere una scelta di “classe” e non svolge più il ruolo di ascensore sociale.
Verso la società 4.0 la laurea torna a essere un driver
L’importanza di investire nello studio è, infatti, sostenuta con determinazione dalla middle class, che vive la scelta come conferma del proprio status e come linea di continuità generazionale. Le famiglie più povere e quelle dei ceti in difficoltà economica mantengono un’adesione flebile all’investire nell’istruzione universitaria (con una distanza di peso di circa 20 punti percentuali rispetto alla classe media). A frenare sono certamente i costi dello studio e la difficoltà a mantenere i figli, ma, soprattutto, un sistema di sostegno inadeguato per meritevoli e talenti, nonché l’incapacità dell’Università di farsi percepire come strumento dello sviluppo professionale e occupazionale delle persone. Il problema è ben rappresentato nell’opzione pro-mestiere. Essa è abbracciata da quasi il 60% dei ceti bassi, mentre l’ipotesi della laurea è una prospettiva individuata da poco più del 20%.
Il vento del cambiamento, tuttavia, inizia a farsi vedere. Sospinta dalle trasformazioni del sistema produttivo, dalle potenzialità offerte dalla rete, dall’avanzare delle innovazioni tecnologiche e dall’incedere dell’industria 4.0, l’opinione pubblica sta rivalutando il ruolo dell’Università. Essa è ritenuta strategica per lo sviluppo del Paese dal 63% degli italiani (solo nelle isole il dato è marcatamente più basso, assestandosi al 49%). I temi che il sistema universitario nostrano deve affrontare per giocarsi la partita sono numerosi. L’agenda setting proposta dall’opinione pubblica tocca aspetti che spaziano dall’apertura verso il mondo del lavoro, al sostegno della meritocrazia; dal rinnovo del personale docente all’innovazione del sistema universitario. Le sfide segnalate dagli italiani mettono sul piatto l’esigenza di rendere le lauree triennali professionalizzanti con attività di laboratorio in Università e nelle aziende; di rafforzare le attività nell'alta formazione, collegando i dottorati di ricerca alle esigenze delle imprese; di concentrarsi sui centri di eccellenza nel settore della ricerca applicata; di stimolare la nascita di nuove imprese da parte dei giovani laureati; di rafforzare il profilo internazionale degli atenei e la qualità dei docenti. La sfida sul campo è ampia. L’Università deve recuperare su molti fronti, ma su tutti primeggiano due temi: tornare a essere un orizzonte di futuro per i giovani e un ascensore sociale per i meno abbienti.