POLITICAPP | 2 dicembre 2016
Gli italiani e il lavoro
Il lavoro torna a essere un valore essenziale
La società sta cambiando velocemente davanti ai nostri occhi. A volte muta in modo impercettibile, lento, con sommovimenti poco evidenti. Altre volte vive accelerazioni improvvise. Salti, scatti in avanti, cambi di marcia repentini o traumatici. Nel corso dagli anni Novanta del secolo scorso, per dirla con le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman, abbiamo assistito all’affermarsi dell'estetica del consumo. Un paradigma sociale che ha metamorfizzato il senso del lavoro, riducendolo a funzione esistenziale accessoria, subordinata e meramente strumentale.
Un'attività umana che non traeva più il proprio senso da ciò che le persone facevano o realizzavano, ma solo da ciò che il lavoro consentiva in termini di capacità di acquisto. Interessante e noioso, come dice Bauman, erano diventati i due criteri estetici utilizzati per giudicare un lavoro, al pari di qualunque altro oggetto del desiderio consumistico. Il valore estetico dell’occupazione è diventato, così, un potente fattore di stratificazione e castizzazione sociale, ma anche un giustificatore di qualunque scorciatoia o furbetteria. Nell’ultimo periodo, complice la crisi, la stagnazione economica, lo sgretolamento del ceto medio (siamo passati, dal 2003 a oggi, dal 70% al 42% degli italiani che si sente middle class), è iniziato il processo di mutamento della relazione tra lavoro ed esistenza delle persone, tra successo e impegno. Il roboante senso del binomio facilità di denaro-successo sta perdendo i propri tratti costitutivi. L’impegno, il fare, sopravanzano l’idea che il successo si ottenga solo attraverso le scorciatoie della furbizia e delle conoscenze. Una trasformazione che, nei Millennials, s’incontra anche con il ritorno del valore del sapere e dello studio. Solo i trentenni restano parzialmente avvolti nei fumi delle scorciatoie.
Se l’identità del successo migra lentamente (e parzialmente) dai lidi del passato, il mutamento più indicativo si riscontra sul tema del lavoro. Fino a pochi anni fa la vulgata pubblicistica raccontava un’Italia refrattaria ai lavori pesanti, agli orari scomodi, al tempo prolungato o alle attività gravose. Gli otto anni di crisi appena valicati, l’espandersi della flessibilità, l’accrescersi delle incertezze occupazionali, ma anche l’affermarsi di un’identità sociale più sobria, hanno rimodulato la relazione con il lavoro.
Nuove politiche occupazionali e engagement dei lavoratori
Oggi le persone si dimostrano aperte (70%) ad accettare attività slegate al proprio percorso formativo (solo tra i giovanissimi resta solida l’esigenza di trovare un lavoro connesso al proprio percorso di studi); a prendere in considerazione il lavoro domenicale (una disponibilità che coinvolge il 64% degli italiani e il 67% dei giovani); a fare turni notturni (58% in media e 69% tra i Millennials); a lavorare più di 40 ore settimanali (55% in media, che sale al 60% tra i giovani).
La crisi, come si può notare, ha spostato l’asse tra diritti e sacrifici, ma, al contempo, ha ricollocato al centro dell’idea di lavoro il tema stabilità (61%), dell’arginare l’incertezza e l’iper-flessibilità.
Dietro a quello che può apparire solo come il portato negativo della crisi, è rintracciabile anche un mutamento paradigmatico del valore del lavoro.
Da un punto di vista concettuale solo il 20% degli italiani ritiene superato lo spirito del boom economico, il senso del lavoro come mezzo di realizzazione personale e strumento per raggiungere, con l’impegno, un maggiore benessere economico ed esistenziale.
La maggioranza delle persone, il 53%, auspica, invece, un ritorno a quello spirito.
Un mutamento di paradigma che, nel tempo, può incidere sugli asset valoriali nazionali. L'etica del lavoro porta con sé un’esigenza di equità, armonia e engagement; il bisogno di ridurre diseguaglianze e differenze (sia in termini di gratificazione che di prestigio); l’urgenza di migliorare le condizioni esistenziali e climatiche nelle imprese.
Il paradigma estetico della fine del secolo scorso aveva gemmato distinzioni, lustro esclusivo solo per alcune professioni, rango sociale ai furbetti. Il nuovo corso sul senso e il valore del lavoro implica una sfida, un cambio di passo per imprese e politica: pone sul tappeto l’esigenza di definire un quadro normativo e nuove politiche occupazionali in grado di mettere al centro della società il tema della stabilità occupazionale, il valore delle persone, l’engagement dei lavoratori, il benessere esistenziale e relazionale nelle imprese.
La società sta cambiando velocemente davanti ai nostri occhi. A volte muta in modo impercettibile, lento, con sommovimenti poco evidenti. Altre volte vive accelerazioni improvvise. Salti, scatti in avanti, cambi di marcia repentini o traumatici. Nel corso dagli anni Novanta del secolo scorso, per dirla con le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman, abbiamo assistito all’affermarsi dell'estetica del consumo. Un paradigma sociale che ha metamorfizzato il senso del lavoro, riducendolo a funzione esistenziale accessoria, subordinata e meramente strumentale.
Un'attività umana che non traeva più il proprio senso da ciò che le persone facevano o realizzavano, ma solo da ciò che il lavoro consentiva in termini di capacità di acquisto. Interessante e noioso, come dice Bauman, erano diventati i due criteri estetici utilizzati per giudicare un lavoro, al pari di qualunque altro oggetto del desiderio consumistico. Il valore estetico dell’occupazione è diventato, così, un potente fattore di stratificazione e castizzazione sociale, ma anche un giustificatore di qualunque scorciatoia o furbetteria. Nell’ultimo periodo, complice la crisi, la stagnazione economica, lo sgretolamento del ceto medio (siamo passati, dal 2003 a oggi, dal 70% al 42% degli italiani che si sente middle class), è iniziato il processo di mutamento della relazione tra lavoro ed esistenza delle persone, tra successo e impegno. Il roboante senso del binomio facilità di denaro-successo sta perdendo i propri tratti costitutivi. L’impegno, il fare, sopravanzano l’idea che il successo si ottenga solo attraverso le scorciatoie della furbizia e delle conoscenze. Una trasformazione che, nei Millennials, s’incontra anche con il ritorno del valore del sapere e dello studio. Solo i trentenni restano parzialmente avvolti nei fumi delle scorciatoie.
Se l’identità del successo migra lentamente (e parzialmente) dai lidi del passato, il mutamento più indicativo si riscontra sul tema del lavoro. Fino a pochi anni fa la vulgata pubblicistica raccontava un’Italia refrattaria ai lavori pesanti, agli orari scomodi, al tempo prolungato o alle attività gravose. Gli otto anni di crisi appena valicati, l’espandersi della flessibilità, l’accrescersi delle incertezze occupazionali, ma anche l’affermarsi di un’identità sociale più sobria, hanno rimodulato la relazione con il lavoro.
Nuove politiche occupazionali e engagement dei lavoratori
Oggi le persone si dimostrano aperte (70%) ad accettare attività slegate al proprio percorso formativo (solo tra i giovanissimi resta solida l’esigenza di trovare un lavoro connesso al proprio percorso di studi); a prendere in considerazione il lavoro domenicale (una disponibilità che coinvolge il 64% degli italiani e il 67% dei giovani); a fare turni notturni (58% in media e 69% tra i Millennials); a lavorare più di 40 ore settimanali (55% in media, che sale al 60% tra i giovani).
La crisi, come si può notare, ha spostato l’asse tra diritti e sacrifici, ma, al contempo, ha ricollocato al centro dell’idea di lavoro il tema stabilità (61%), dell’arginare l’incertezza e l’iper-flessibilità.
Dietro a quello che può apparire solo come il portato negativo della crisi, è rintracciabile anche un mutamento paradigmatico del valore del lavoro.
Da un punto di vista concettuale solo il 20% degli italiani ritiene superato lo spirito del boom economico, il senso del lavoro come mezzo di realizzazione personale e strumento per raggiungere, con l’impegno, un maggiore benessere economico ed esistenziale.
La maggioranza delle persone, il 53%, auspica, invece, un ritorno a quello spirito.
Un mutamento di paradigma che, nel tempo, può incidere sugli asset valoriali nazionali. L'etica del lavoro porta con sé un’esigenza di equità, armonia e engagement; il bisogno di ridurre diseguaglianze e differenze (sia in termini di gratificazione che di prestigio); l’urgenza di migliorare le condizioni esistenziali e climatiche nelle imprese.
Il paradigma estetico della fine del secolo scorso aveva gemmato distinzioni, lustro esclusivo solo per alcune professioni, rango sociale ai furbetti. Il nuovo corso sul senso e il valore del lavoro implica una sfida, un cambio di passo per imprese e politica: pone sul tappeto l’esigenza di definire un quadro normativo e nuove politiche occupazionali in grado di mettere al centro della società il tema della stabilità occupazionale, il valore delle persone, l’engagement dei lavoratori, il benessere esistenziale e relazionale nelle imprese.