POLITICAPP | 16 settembre 2016
Lavoro e stipendi
ll futuro del Paese nell’aumento dei salari?
Il Paese e la sua economia si muovono con passo flemmatico. Gli italiani avvertono la rimessa in moto dei motori, ma registrano anche le difficoltà, le zavorre che continuano a rendere l’incedere verso il futuro debole, frenato, svigorito. A marcare negativamente il clima nazionale, tuttavia, è un altro fattore: è l’insediarsi di un sentimento d’ingiustizia nelle relazioni tra lavoro e impresa. La flessibilità, la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia; il peso della crisi e dei processi di ristrutturazione, hanno metamorfizzato il mondo del lavoro. Se l’evoluzione ha permesso, da un lato, lo svecchiamento della nostra economia, dall’altro lato, non ci ha fatto diventare un Paese in cui brilla la stella del benessere organizzativo, in cui è facile connettere occupazione e realizzazione di sé e delle proprie capacità. Questi tre lunghi lustri hanno generato una nebulosa non propriamente positiva intorno al tema occupazione. Il word cloud del lavoro si è arricchito di termini come adattarsi, arrangiarsi, prendere quello che c’è; si è infoltito di sensazioni come insicurezza, ansia, incertezza, insoddisfazione, paura di perdere il posto. L’alternativa è rimasta la fuga, magari all’estero, per riuscire a trovare riconoscimenti e riscontri adeguati. A rendere grigio il cielo sopra al tema lavoro concorrono molteplici fattori. C’è, in primis, l’aspetto della tipologia contrattuale. Per l’89% delle persone (92% tra i Millennials) il contratto a tempo indeterminato è fondamentale o comunque importante (tra i ragazzi e le ragazze a dirsi disinteressato è solo il 2%). Oltre all’incertezza contrattuale, a rendere caliginoso il quadro è la questione dei salari. Per l’87% degli italiani aumentare gli stipendi è una priorità assoluta o comunque un’esigenza primaria che marcia di pari passo con altri interventi per il rilancio del Paese. Una presa di posizione che trova origine nel bisogno di lasciarsi alle spalle gli anni di sacrifici legati alla crisi, ai processi di ristrutturazione industriale e alla bassa e ridotta crescita dei livelli salariali.
Il bisogno di nuove strategie per superare la stagnazione
Secondo l’Istat, infatti, l’incremento delle retribuzioni contrattuali orarie su base annua nei primi tre mesi del 2016 è stato il più basso mai registrato dall'Istat dall’inizio delle serie storiche, ovvero da 34 anni.
Il bisogno di voltare pagina sulle politiche salariali trova ragione anche nello sguardo al futuro, nelle apprensioni che ingenera l’industria 4.0, nelle prospettive corte che sembrano disegnarsi per i giovani, nell’urgenza di dare una scossa all’economia nazionale, ai consumi e alle speranze delle persone. Intervenire sui livelli degli stipendi è diventato, per gli italiani, non solo un auspicio, ma anche una ricetta necessaria, una scelta di giustizia ed equità economica e sociale.
Una soluzione ritenuta sostenibile per una parte delle imprese e che, per l’opinione pubblica, contribuirebbe a ridare slancio all’economia, farebbe ripartire i consumi, darebbe un segnale di solidità e futuro alle famiglie. Il tema dell’incremento della quantità di soldi che entra nelle tasche di chi lavora, assume un valore vitale per il 25% delle famiglie che non arrivano a fine mese, ma è importante anche per quella quota di ceto medio che, nel corso degli anni, ha perso reddito, stabilità e certezza esistenziale. Sono proprio queste due fasce della popolazione (che sommate fanno quasi il 65% del corpus sociale del Paese) a evidenziare il valore strategico dell’aumento degli emolumenti per ridare fiato all’economia e alla volontà di spesa delle famiglie. Il tema è delicato.
Quando si parla di aumento del salario c’è il rischio di porre attenzione solo a quanti hanno un lavoro o di cadere in atteggiamenti neo-corporativi.
Pur nella consapevolezza di questi rischi, dopo anni di stagnazione, di ripiegamento sociale e di ricette dallo scarso esito, forse sarebbe ora di provare qualche strada alternativa e di accettare questa sfida.
Il Paese e la sua economia si muovono con passo flemmatico. Gli italiani avvertono la rimessa in moto dei motori, ma registrano anche le difficoltà, le zavorre che continuano a rendere l’incedere verso il futuro debole, frenato, svigorito. A marcare negativamente il clima nazionale, tuttavia, è un altro fattore: è l’insediarsi di un sentimento d’ingiustizia nelle relazioni tra lavoro e impresa. La flessibilità, la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia; il peso della crisi e dei processi di ristrutturazione, hanno metamorfizzato il mondo del lavoro. Se l’evoluzione ha permesso, da un lato, lo svecchiamento della nostra economia, dall’altro lato, non ci ha fatto diventare un Paese in cui brilla la stella del benessere organizzativo, in cui è facile connettere occupazione e realizzazione di sé e delle proprie capacità. Questi tre lunghi lustri hanno generato una nebulosa non propriamente positiva intorno al tema occupazione. Il word cloud del lavoro si è arricchito di termini come adattarsi, arrangiarsi, prendere quello che c’è; si è infoltito di sensazioni come insicurezza, ansia, incertezza, insoddisfazione, paura di perdere il posto. L’alternativa è rimasta la fuga, magari all’estero, per riuscire a trovare riconoscimenti e riscontri adeguati. A rendere grigio il cielo sopra al tema lavoro concorrono molteplici fattori. C’è, in primis, l’aspetto della tipologia contrattuale. Per l’89% delle persone (92% tra i Millennials) il contratto a tempo indeterminato è fondamentale o comunque importante (tra i ragazzi e le ragazze a dirsi disinteressato è solo il 2%). Oltre all’incertezza contrattuale, a rendere caliginoso il quadro è la questione dei salari. Per l’87% degli italiani aumentare gli stipendi è una priorità assoluta o comunque un’esigenza primaria che marcia di pari passo con altri interventi per il rilancio del Paese. Una presa di posizione che trova origine nel bisogno di lasciarsi alle spalle gli anni di sacrifici legati alla crisi, ai processi di ristrutturazione industriale e alla bassa e ridotta crescita dei livelli salariali.
Il bisogno di nuove strategie per superare la stagnazione
Secondo l’Istat, infatti, l’incremento delle retribuzioni contrattuali orarie su base annua nei primi tre mesi del 2016 è stato il più basso mai registrato dall'Istat dall’inizio delle serie storiche, ovvero da 34 anni.
Il bisogno di voltare pagina sulle politiche salariali trova ragione anche nello sguardo al futuro, nelle apprensioni che ingenera l’industria 4.0, nelle prospettive corte che sembrano disegnarsi per i giovani, nell’urgenza di dare una scossa all’economia nazionale, ai consumi e alle speranze delle persone. Intervenire sui livelli degli stipendi è diventato, per gli italiani, non solo un auspicio, ma anche una ricetta necessaria, una scelta di giustizia ed equità economica e sociale.
Una soluzione ritenuta sostenibile per una parte delle imprese e che, per l’opinione pubblica, contribuirebbe a ridare slancio all’economia, farebbe ripartire i consumi, darebbe un segnale di solidità e futuro alle famiglie. Il tema dell’incremento della quantità di soldi che entra nelle tasche di chi lavora, assume un valore vitale per il 25% delle famiglie che non arrivano a fine mese, ma è importante anche per quella quota di ceto medio che, nel corso degli anni, ha perso reddito, stabilità e certezza esistenziale. Sono proprio queste due fasce della popolazione (che sommate fanno quasi il 65% del corpus sociale del Paese) a evidenziare il valore strategico dell’aumento degli emolumenti per ridare fiato all’economia e alla volontà di spesa delle famiglie. Il tema è delicato.
Quando si parla di aumento del salario c’è il rischio di porre attenzione solo a quanti hanno un lavoro o di cadere in atteggiamenti neo-corporativi.
Pur nella consapevolezza di questi rischi, dopo anni di stagnazione, di ripiegamento sociale e di ricette dallo scarso esito, forse sarebbe ora di provare qualche strada alternativa e di accettare questa sfida.